Controvento di Filomena Uva in Corona Book 2.0 vaccini di scrittura creativa (Edigrafema Edizioni)

10.12.2020

L'emergenza epidemiologica da Covid-19 e le misure di contenimento adottate hanno avuto delle innegabili ripercussioni anche sul piano della violenza basata sul genere, soprattutto in ambito domestico. La Commissione d'inchiesta sul femminicidio ritiene necessario effettuare un primo bilancio dell'impatto che l'emergenza epidemiologica ha avuto sul fenomeno della violenza di genere, alla luce anche dei dati statistici disponibili e acquisiti sino a qui. Intende, in particolare, verificare se, e in che termini, l'isolamento imposto dall'emergenza sanitaria, la condivisione prolungata e obbligata di spazi e le preoccupazioni connesse all'incertezza del domani, tra cui l'instabilità economica, abbiano contribuito ad esasperare le dinamiche violente nei rapporti di convivenza familiari di cui, spesso, sono vittime donne e minori.


LeggoLibri  pubblica integralmente il racconto che Filomena Uva ha scritto per la casa editrice Edigrafema nel progetto editoriale nato nel periodo del lockdown a pag. 46 dell'ebook Corona Book 2.0 vaccini di scrittura creativa (DIRITTI RISERVATI) 

Controvento

di Filomena Uva

Mi chiedo quando finirà. O meglio, se finirà. Si dice che tutto abbia un termine eppure il dolore a volte mi sembra eterno: nonostante io gli imponga di tacere, l'eco dei suoi passi rimbomba nelle stanze segrete della mia anima, lì dove ho accatastato i pensieri scomodi e i segreti che non intendo condividere nemmeno con me stessa. In televisione non fanno che parlare del concetto di libertà e unione, le persone cantano a gran voce dai balconi e aspettano con ansia il giorno in cui potranno riprendere in mano la vita di sempre, riappropriarsi delle abitudini rubate da un virus giunto da molto lontano. La mia vita di sempre invece è proprio questa. Vivo nel suo appartamento da due anni, mi permette di allontanarmi solo per recarmi al supermercato. Dice che il mondo è pericoloso per una come me, una donna senza una famiglia alle spalle e incline alla depressione, un essere umano così fragile che ha paura persino di sé stesso. Devo essergli grata, me lo ripete di continuo, perché grazie alla sua benevolenza non muoio di fame o di solitudine. Invece sola lo sono, anche se non se ne accorge, sono molto più sola adesso di quando non ero la sua donna ma semplicemente una ragazza in balia degli eventi. Poi è entrato in quel maledetto bar, mi ha offerto una birra e ho barattato la mia dignità in cambio dell'illusione di un legame stabile. È carino in fondo, e qualche volta mi fa ridere, posso dunque sopportare la gelosia opprimente e gli insulti che mi getta addosso riempiendomi di cicatrici invisibili. Il rapporto di coppia richiede questo, no? Sopportazione e rinuncia della libertà personale. L'amore che condividiamo io e lui somiglia molto al Coronavirus. E poi mi basta aver sperimentato la libertà da bambina, quando mi piaceva correre controvento per sfidare l'alito di Dio, come chiamavo le forti raffiche che sembrava volessero strapparmi di dosso i vestiti. L'alito di Dio mi respingeva, cercava di non farmi avanzare, però io non mollavo. Nel luogo in cui sono cresciuta il vento non mancava quasi mai, allo stesso modo della nebbia. Agitava i rami degli alberi, si intrufolava nelle case e fischiava la sua melodia strisciando di soppiatto attraverso le tubature vecchie dei palazzi. Anche da adolescente mi credevo libera e mi piacevano tante cose; i profumi, i vestiti nuovi, le canzoni d'amore e i ragazzi. Ma più di tutto adoravo i miei capelli; districavo con le dita le ciocche ondulate, mi guardavo allo specchio e agitavo la testa per far sì che ondeggiassero come un mare in tempesta. Sapevano di lozioni alle mandorle, veniva voglia di mangiarli. Lui me li ha fatti tagliare, dice che sto meglio senza quella massa disordinata attorno al volto, anche se non è vero. Senza i miei capelli mi sento esposta e vulnerabile. Da adulta non mi piace più niente, forse solo la sensazione del sole sulla pelle, ma neanche sempre. A volte odio la luce, corro a ripararmi dietro strati e strati di tenebre. Ormai vivo in attesa, di che cosa non lo so. Non del momento in cui qualcuno ci dirà che possiamo uscire e tornare al nostro lavoro, possiamo rivedere gli amici e chiacchierare davanti a una tazza di caffè o in un parco affollato. Non attendo neanche un'emozione improvvisa che mi scuota dal torpore. Ne ho provate troppe in passato, ora preferisco l'apatia. Aspetto e basta, perché non ho altro da fare. Aspetto mentre mi mordo le labbra e immagino di avere ancora i capelli lunghi che si muovono come un mare agitato se scuoto la testa, di correre controvento con le braccia allargate e urlare di gioia. Lui invece non lo aspetto mai, ma fingo di essere felice ogni volta che varca la soglia di casa. Gli vado incontro come un cagnolino fedele, gli scodinzolo intorno e lo faccio sentire importante mentre io rimpicciolisco la mia identità fino a smarrirla. Sono una nullità, me ne rendo conto, ma non ho modo di uscire dalle sabbie mobili in cui sto affondando. Ieri, approfittando della sua assenza, ho trovato il coraggio di uscire sul balcone. Prima mi sono affacciata con cautela, ho spiato le persone che cantavano e applaudivano, in seguito mi sono unita a mia volta all'applauso. È stato bello, mi sono sentita parte della comunità. Faceva freddo, la maglietta leggera e i jeans non erano in grado di scaldarmi il corpo, ma sono rimasta fuori a lungo a osservare di soppiatto i miei vicini di casa, a immaginare le loto vite, a invidiare persino le lacrime che scorrevano sui loro volti. C'era chi mentre piangeva riusciva anche a ridere, faceva entrambe le cose come se mostrare i propri sentimenti fosse un diritto. Io non mi permetto tale lusso, soffoco ciò che provo, lo inghiotto e lascio che marcisca dentro di me. Mi lascio marcire dall'interno. A volte ho l'impressione di puzzare, come se fossi un corpo in decomposizione. Il mio fisico è sano, la mia salute perfetta, ma di sicuro la mia anima non lo è. Mi vergogno, vorrei essere più forte ma non so dove sia finita la mia determinazione. Mi sono trasformata nel fantasma sbiadito della bambina che affrontava l'alito di Dio, dell'adolescente orgogliosa dei suoi capelli. Faccio fatica persino a guardarmi allo specchio, mi fa paura la fissità dei miei occhi, vitrei come quelli di un manichino esposto nella vetrina di un negozio. Giro per casa, percorro avanti e indietro il lungo corridoio, gli preparo il pranzo e la cena, gli scaldo il letto e cerco di ignorare la sensazione di oppressione che mi toglie il fiato, le pareti dell'appartamento che mi si stringono attorno. Nei miei sogni urlo a squarciagola, corro senza riuscire a fare un passo, chiedo aiuto. Nella realtà fingo di stare bene, fingo di pregare come tutti gli altri affinché al più presto si trovi un vaccino contro il Coronavirus, dico a lui di non preoccuparsi perché tutto andrà bene. Ma so che non è la verità, per me niente andrà bene, nemmeno dopo, quando il mondo si risolleverà e le persone ricominceranno a muoversi togliendosi di dosso l'immobilità. Io resterò ferma, accucciata nel mio patetico angolino a lasciarmi morire, troppo debole per ribellarmi, troppo stupida per aggrapparmi a un briciolo di istinto di sopravvivenza. Comunque è inutile indugiare su certe riflessioni, meglio rinchiuderle con gli altri pensieri scomodi. Mi avvicino alla porta, ho sentito qualcuno bussare. Di sicuro è lui, avrà dimenticato le chiavi a casa prima di uscire questa mattina. Mi preparo ad accoglierlo con dolcezza, a sopportare le sue lamentele sul duro lavoro in ospedale, sul suo mettere a rischio la nostra salute per salvare quella altrui. Peccato che però non riesci a salvare me, sono stata sul punto di urlargli l'altra sera. Peccato che tu abbia utilizzato la mia depressione come scusa per sopraffarmi. Sospiro e tengo a bada la rabbia, apro la porta. Non c'è nessuno. Mi sono sbagliata, non ha suonato al campanello. Sto per chiudere ma qualcosa mi trattiene. Le scale di fronte a me sono pulite, anche il corrimano in ferro battuto lo è. Ogni gradino è un passo verso la libertà. Ogni gradino sceso mi allontanerebbe da questa casa. Sì, certo, poi dove andrei? Non ho amici, lui mi ha vietato di continuare a frequentarli, diceva che erano persone false e invidiose, avrebbero distrutto il nostro rapporto. Non ho familiari stretti, mia madre è morta quando ero piccola e mio padre è sparito. Non ho nessuno a parte lui. Eppure fuori il vento fischia, mi chiama, intende sfidarmi. Tornerò indietro, lo giuro, farò solo una passeggiata per le strade deserte della città. Prendo il cappotto dall'appendiabiti al mio fianco, lo indosso abbottonandolo con cura, infine compio un paio di passi esitanti. Mi fermo sul pianerottolo e mi guardo le pantofole. Dovrei tornare indietro per infilarmi le scarpe? No, non serve, in fondo per strada non troverò nessuno, al massimo mi fermeranno i carabinieri e mi scorteranno a casa credendo di avere a che fare con una svitata. Darò la colpa alla reclusione, dirò loro che stare troppo tempo a casa mi ha resa debole di mente. Non parlerò di lui, non lo metterei mai nei guai, parlerò solo di me e dei miei errori, del mio essere una nullità. Scoppierò a piangere, e poi a ridere, e urlerò come faccio nei miei sogni, così il dolore che mi porto dietro verrà scagliato in cielo, oltre le nubi, e chissà, forse finalmente qualcuno si accorgerà che ho bisogno di aiuto. Scendo piano le scale con le gambe tremanti e mi ritrovo fuori dal portone. Non mi guardo indietro. Prendo a camminare sul marciapiede che fiancheggia una strada desolata senza soffermarmi sulla meta da raggiungere. Per una volta gli altri sono prigionieri in casa mentre io mi muovo, vivo, mi confondo con ciò che mi circonda. Il vento mi solleva i corti ciuffi di capelli, giocherella con l'orlo del cappotto, mi spinge in avanti, mi sussurra che gli sono mancata. E ora tutto mi è chiaro. Allargo le braccia e alzo il volto, il peso di questi due anni di prigionia cadono a terra, rimbalzano contro le mie difese interiori e muoiono sull'asfalto. Sboccerò di nuovo, nessuno me lo impedirà, guarirò dal virus dell'abbandono e della solitudine che mi stava consumando e tornerò a venerare la mia femminilità, a scegliere come portare i capelli, chi frequentare, quali emozioni esternare e quali tenere per me. Assaporerò ancora una volta il gusto della libertà. Odo una voce, appartiene a un uomo che si trova alle mie spalle. Mi chiede che cosa faccio, dove credo di andare. Potrebbe essere lui oppure un carabiniere, o un estraneo qualsiasi che vuole che io torni a casa. Ma non sono un pericolo per la società, non ho creato alcun assembramento, non mi avvicinerò a nessuno, per una volta mi piace stare da sola. Rispondo a quella voce maschile senza voltarmi, senza parlare. Inizio a correre. Le rispondo nella mia mente. Vado controvento, penso. Vado controvento e non tornerò indietro. Sono sicura che prima o poi incontrerò qualcuno che mi aiuterà. Nel frattempo ricomincio a muovermi. 

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