Diari dal carcere di Sepideh Gholian (Gaspari editore)

Questo libro merita di essere descritto nella sua struttura materica prima che contenutistica.
I veri e propri Diari dal carcere, frutto del lavoro artistico di Sepideh Gholian, occupano in maniera "ingombrante" la prima e la seconda parte del testo, ne sono, come è ovvio, il cuore pulsante.
Ma tutto ciò che fa da cornice al suo lavoro non è irrilevante, è chiave necessaria da afferrare per accedere alla lettura del narrato, chiave che attutisce i colpi del dolore e della ferocia con cui il lettore deve fare i conti e da cui non si salva, al pari della narratrice e delle donne che con lei condividono l'esperienza inenarrabile della detenzione nel centro di torture di Sepidar, in Iran.


Una prefazione a firma del Presidente di Amnesty International Italia che avverte "bisogna agire per fermare la violenza".
Un'introduzione della stessa autrice dalla prigione di Busherhr dove attualmente si trova, formula la speranza che il libro, tradotto in lingua italiana, "spalanchi nuove e più grandi finestre alle mie sorelle di lotta e porti il loro grido fino alle orecchie delle donne italiane".
Un breve ma assai utile intervento del traduttore del testo iraniano e, infine, La Porta a cura di Awat Pouri, attivista curdo-iraniana, la quale raccoglie dalla scrittrice il compito di riorganizzare in un libro i frammenti, gli appunti che Gholian le fa pervenire, e di fornire ai lettori gli strumenti per la lotta.
In calce, i ritratti delle compagne di detenzione di Sepideh in mano a una donna completamente nascosta da un chador bianco e "dieci lapidi", disegni e schizzi in bianco, nero e rosso come il sangue, il cui odore unito a quello della morte diventano inseparabili nel ricordo di chi, "per errore", dovesse sopravvivere.

L'autrice, dal canto suo, non risparmia dettagli.
"Il solo fatto di vivere in Iran ci rende prigionieri".
Lei attivista iraniana, giornalista free lance, capelli blu, pantaloni a palazzo color anguria, arrestata per avere documentato uno sciopero. Una giornalista, una comunista, una donna fuori dagli schemi imposti odiosamente da un regime dittatoriale e confessionale, imprigionata con donne arabe, le più povere, con mogli di sospetti attivisti ISIS, con sorelle e figlie colpevoli di aver danzato o di avere messo un filo di rossetto sulle labbra.
Un abisso in cui sprofonda la natura umana: donne di qualsiasi età, picchiate, violentate, torturate, isolate, private delle più elementari condizioni igieniche (dalla spazzola per i capelli agli assorbenti igienici). Corpi ammassati o nascosti nei chador, costrette a partorire in carcere i loro figli a gambe strette, grembi lacerati e mostrati al mondo attraverso video-confessioni shock utili a impressionare l'opinione pubblica il tempo di un servizio televisivo al telegiornale delle 13.00.
Ed ecco, però, che attraverso le storie di tutti gli occhi color del miele che occuperanno con lei la cella angusta e sporca della prigione di Sepidar, l'autrice trasformerà quel luogo lugubre nel paese dove si consuma la vita, ignorata, di tutte le donne iraniane.

Senza differenza tra dentro e fuori.
Sfilano macabri davanti agli occhi del lettore i cadaveri delle donne uccise dai missili lanciati sulle loro case, i corpi carbonizzati delle madri che allattano i loro bambini, donne che bevono con i figli acque putride, tutte le donne Yezite, tutte quelle imprigionate dai Talebani.
"La donna, eterna vittima, è sempre colpevole", conclude Sepideh senza mai perdere forza e coraggio.
"Tornerò a salutare il sole, i ruscelli che scorrono nelle
mie poesie"
(Forugh Farrokhzad, poetessa iraniana).

M.L.