Donne che parlano, Miriam Toews (Marcos y Marcos)
Chi sono i Mennoniti?
Wikipedia, dopo una veloce, formale consultazione, ci dice che i Mennoniti costituiscono la più numerosa delle chiese anabattiste e devono il loro nome a Menno Simons (1496-1561)
Dice che ad oggi si contano più di un milione e mezzo di Mennoniti nel mondo, soprattutto negli Stati Uniti, sulle coste caraibiche in Honduras, in Paraguay (soprattutto tra i discendenti degli immigrati tedeschi), in Canada, in Africa e in India.
Dice pure che l'idea alla base della loro dottrina è quella di un ritorno alle origini della Chiesa cristiana che, secondo loro, è stata rovinata da secoli di teologia e di lotta per il potere, andando sempre più allontanandosi da ciò che loro ritengono il messaggio originale di Cristo.
Dice, ancora, che l'obiettivo dei mennoniti è quello di creare delle comunità di santi, basate su sobrietà e carità. Nelle intenzioni queste comunità si dovrebbero avvicinare molto alle prime comunità cristiane, chiuse al mondo esterno, fortemente disciplinate. Per questo i Mennoniti oggi continuano a combattere il lusso eccessivo e a vivere relativamente appartati rispetto alla società circostante.
Miriam Toews, autrice del libro Donne che parlano (Marcos Y Marcos) è una mennonita che a diciotto anni scappa dalla sua comunità e si rifugia a Montreal.
E delle comunità mennonite lei dice altro. O meglio le sue donne dicono altro.
Parlano le donne del libro perché non sanno leggere né scrivere.
Parlano di come devono vestirsi per non "dispiacere" agli uomini della comunità (calzettoni alti fino alle ginocchia, fazzoletti a coprire i capelli).
Parlano del fatto bizzarro che non hanno mai visto una cartina geografica e non sanno neppure dove si trovino a vivere le loro vite.
Parlano della loro condizione di donne fattrici, tenute in nome di stravaganti principi religiosi a partorire (senza morire prima) anche fino a quindici figli.
Parlano del fatto che, narcotizzate con sonniferi a uso veterinario, nottetempo e a lungo, gli uomini della comunità entrano nelle loro stanze, le legano braccia e piedi ai letti e le violentano. Tutte. Anche bambine di tre anni.
Parlano ancora della necessità loro imposta dal capo della comunità di accettare per vera la storia che sia il diavolo a far loro queste bruttezze, complice il buio della notte e che è bene per loro dimenticare (e finanche perdonare gli uomini) se desiderano, dopo la loro morte, raggiungere il paradiso.
Ma le donne non ci stanno. Le donne si ribellano. E iniziano a proteggersi. Lo fanno rivolgendosi a Arthur Epp, un reietto della comunità, a cui chiedono di raccogliere le loro storie, le loro confidenze, le loro paure.
Così in un fienile, dove Epp le riunisce per verbalizzare i loro resoconti, si dipanano le vite tristissime di queste povere creature costrette ai margini della vita, non solo della loro piccola, sconosciuta comunità.
Il tempo stringe, gli accusati degli stupri stanno tornando a casa, dopo che qualcuno ha versato per loro una cauzione, e le donne devono prendere una decisione.
Segnata dall'origine mennonita, Miriam Toews spesso mette in evidenza la sua esperienza mostrando tutta la perniciosa influenza del fondamentalismo religioso sull'individuo. "Credo che l'idea della fuga, dell'esilio, di lasciare un posto, sia qualcosa su cui ho meditato a lungo."
La sua meditazione è affidata alle donne del libro delle quali la scrittura regge bene il peso della ignoranza, della superstizione, del pregiudizio, ma pure di arguzia sopita, di intelligenze soffocate, di desideri negati. Regalando alla fine una storia di sorellanza profonda e toccante, testimoniata da quelle trecce che si uniscono a confondersi in un unico sforzo coraggioso per salvarsi.
Al lettore il compito di scoprire il finale.
Intanto, si può dire che la verità completa è emersa soltanto col processo, svoltosi quasi due anni dopo, nel 2011. Le deposizioni sembrano il copione di un film horror: le vittime avevano dai tre ai 65 anni (alla più piccola è stato rotto l'imene, presumibilmente con un dito). Ragazze e donne sposate, single, residenti, turiste, inferme mentali. Anche se non se n'è parlato e non è stato mai menzionato nel processo, alcuni abitanti hanno detto, in privato, che anche uomini e ragazzi sono stati violentati. Nell'agosto del 2011 il veterinario che forniva lo spray anestetico è stato condannato a 12 anni di prigione e gli stupratori a 25 anni ciascuno (cinque anni meno della pena massima del sistema giudiziario boliviano). Ufficialmente sono state contate 130 vittime. Non tutte le vittime però sono state citate nella causa, e si stima che il loro numero sia di gran lunga più alto (VICE, 19.09.2013 Gli stupri fantasma della Bolivia).
Maria Lovito