Il delitto di via Poma trent'anni dopo, Igor Patruno (Armando Editore)

L'anno di nascita (1969) e un costume bianco, le assonanze tra me e Simonetta Cesaroni. Null'altro perché a lei una sconosciuta mano violenta spezzò la vita a soli venti anni e da allora non è più, se non nel ricordo amorevole dei suoi cari.
Amore che la cronaca, ancora oggi forse, non le ha tributato, perché per sua natura intrinseca è fredda, distaccata, rende il fatto svuotato di umanità, emozioni e dolore.
Anche il racconto minuzioso che di questo delitto fa Igor Patruno in Il delitto di via Poma trent'anni dopo (Armando Editore) è feroce, scevro di dolcezza, ricco di spaventosi e atroci dettagli. Ma tra le parole, da lettrice attenta, oramai avvinta dalla vicenda (non solo investigativa), vedo l'autore dibattersi tra il rispetto deontologico della narrazione giornalistica e della doverosa fedeltà al resoconto processuale, e lo sdegno dell'uomo, profondo, imperituro, che quasi si rinnova e cresce, quanto più il pensiero torna tra faldoni e referti, per il "mancato congelamento della scena del crimine", le piste confuse, le reticenze dei testimoni, le gravissime omissioni investigative, causa della deriva della storia verso un "desolante caos".

Patruno si rivela giornalista serio e severo, non è storico né giudice, padroneggia capacità e competenze sorprendenti e, con linguaggio - anche il suo - "gelido, articolato attraverso l'uso di termini desueti, estraneo al quotidiano parlare degli uomini", mi prende per mano e dalla periferia di Roma mi conduce a via Poma, con la stessa ansia di chi quella notte l'ha vissuta di persona, nelle orecchie la frase ansiosa e accorata della madre di Simonetta (che quel giorno nella borsetta aveva un trancio di pizza per la merenda), "Simona non è ancora rientrata".
Continuando a leggere, attraverso le descrizioni dettagliate al limite dell'ossessione, l'autore riesce a trasmettere tutta la solitudine della giovane donna, colpita a morte da un predatore, scrive Patruno, qualcuno rimasto sconosciuto, a cui la ragazza apre la porta e a cui, forse, si offre - e per il quale con un gesto a lei consueto si sfila le scarpe e le appaia in un angolo della stanza.
Ma poi accade qualcosa. E si accende la rabbia omicida e, colpita al volto prima e attinta da ben 29 lacerazioni da lama appuntita e bitagliente dopo, Simonetta inizia a morire.

E' un femminicidio, sostiene Patruno, in una sintesi che potrebbe fare scuola racchiusa in quella singolare espressione "ossimoro affettivo".
Nel ricordo Simonetta resta a terra e di lei tornerà in continuazione la fotografia scattata al mare.
Intorno a lei vistose deficenze investigative, un incredibile e folto gruppo di testimoni inutili, inaffidabili, qualcuno che anni dopo si toglierà la vita, un delirante processo a danni di un ex fidanzato, poi assolto, che aggiungerà dolore a dolore, senza fare giustizia per Simonetta.
Mi pongo sempre con colto distacco di fronte a libri come questo, memore dei miei studi di Filosofia e Storia del Diritto. Ho la severa consapevolezza che solo un processo giusto possa e debba condurre a condannare e a comminare una pena che non è vendetta e che né mai deve esserlo.
Mi accompagna il monito che la pena conservi sempre la sua natura riparativa e rieducativa, convinta che nessuna pena sarà mai adatta a ricucire lo strappo, il vulnus, che il fatto delittuoso infligge al sistema, quasi che dovere punire già da sé rappresenti il fallimento dello Stato.
Ma quando, come per il caso Cesaroni, quel sistema complesso, elaborato, abitato da diverse e sfaccettate professionalità e saperi, non riesce a far funzionare a dovere la macchina investigativa, avverto forte il senso comune ed esteso della sconfitta. Ancor più quando su questo "malfunzionamento" si sente puzza di nascondimento, "ripulitura", dimenticanze imperdonabili, incrinature ingiustificabili, spostamenti e sparizioni.
Patruno questa puzza la sente. E la racconta. Perché non è poesia la sua quando immagina Simonetta col suo ombrello rosa spostarsi dalla periferia di Subaugusta al centro borghese e benestante di Roma: è in questo spostamento che si cela il mistero del delitto di via Poma.
Maria Lovito