Il giardino dei frangipani di Laila Wadia (OLIGO Edizioni)

27.12.2020

Kumari è indiana e qualcuno dice che il suo nome significhi Principessa.

Vive al Giardino dei frangipani, una pianta che produce fiori simili a quelli dell'oleandro, insieme a bacche tossiche, nome evocativo dell'India delle fiabe, musiche popolari, colori sgargianti dei sari, mercati affollati e odorosi di spezie.

Ma Kumari è un'orfana e il Giardino dei frangipani è l'orfanotrofio dove la madre, come tante altre donne povere e sole, l'ha lasciata ancora neonata, perché le suore se ne prendessero cura, in un coacervo contraddittorio di razze e religioni.

Niente di romantico.

Nulla di favoloso.

L'intera vita di Kumari è un grido silenzioso di dolore tenuto nascosto, ribollente, da cui tenta inutilmente di fuggire e che fa il paio con quello, diverso e uguale degli altri orfani che con lei condividono quello status così infamante, ma anche con quello di chi vive in un'altra parte del mondo, dove, nonostante il talco profumi la pelle dei neonati, le vite possono essere straziate da vuoti esistenziali laceranti, insanabili, capaci di mordere come la fame.

Laila Wadia è una scrittrice indiana che vive e lavora in Italia.

Il giardino dei frangipani è il libro che per lei ha pubblicato Oligoeditore, una casa editrice mantovana, che produce narrativa straniera.

In terza di copertina si legge di lei che è sensibile ai temi della migrazione, della lingua, della multiculturalità e della condizione femminile e che crede fermamente che l'umanità sia un unico volume.

Tutti temi che si ritrovano in questo libro, prosa semplice, veloce, diretta, pungente, rabbiosa.

Non c'è spazio al sentimentalismo e neppure al pietismo: Kumari non te ne lascia il tempo!

E' bambina all'orfanotrofio e, per sopravvivere agli orrori che vede ma non comprende ancora appieno, inventa di essere nata da una madre poetessa e da un principe bellissimo, costretto tuttavia dalla sua nobile condizione a sposare un'altra donna.

La sua infanzia, come quella di tutti i bambini orfani, termina a sedici anni e subito si aprono per lei le porte del durissimo mondo del lavoro in una fabbrica di indumenti.

Kumari sa parlare un po' di Inglese e impara a cucire, dorme sul pavimento, finge di avere una famiglia troppo lontana da potere raggiungere e protegge con i denti la sua verginità , 'ché in India per una donna è un biglietto di sola andata per una vita migliore.

Poi la svolta inaspettata e la partenza per l'Italia. Roma, la scintillante via del Babuino, gli incontri giusti dopo una gavetta pesante e Kumari diventa un'immigrata di successo.

La crisalide, scrive Wadia, si trasforma in farfalla, ma neppure la vita lussuosa e appagante che si troverà finalmente a condurre la libererà dal suo complesso di inferiorità, feroci compagni di viaggio il senso di smarrimento e di alienazione, propri di chi è nato e cresciuto ai margini delle comunità di appartenenza.

Particolari circostanze la ricondurranno in India, dove tornerà vestita dei suoi abiti firmati superbi e distaccati, per fare i conti con se stessa, anche in maniera angosciosa.

Non potrai mai cambiare l'India, semmai è l'India a cambiare te.

Un'apodittica asserzione che Kumari sperimenterà sulla sua pelle, lei che come il ruvido khadi battuto cento volte sui lavatoi dei dhobbi e' diventata una morbida pashmina.

Quel che vedrà con i suoi occhi disincantati la costringeranno a rivedere i termini di quel viaggio, a confondere le parole, a desiderare di essere riaccolta nel musicale abbraccio dell'hindi, a permettere a se stessa di riaccogliere la vecchia Kumari.

L'infanzia abbandonata e deprivata della sua innocenza da adulti ricchi e perversi, l'urgenza di crescere per non essere di peso ad alcuno, lo sfruttamento della forza lavoro e le condizioni di miseria a cui sono costrette le fasce sociali più deboli, un progresso bene per pochissimi e devastante per molti, l'inequità e la desolazione che trasformano gli esseri umani fragili in rifiuti, in scarti della vita. E dentro questo orribile calderone, dove insieme fermentano politici senza scrupoli, religione e superstizione utili a castrare la mobilità sociale, essere donna è fatto ancor più tragico, quando sono costrette ad abbandonare i loro neonati perché non possono permetterseli e, per questo gesto, emarginate e condannate per sempre, e con loro i loro stessi figli.

Si fa strada il tema dell'immigrazione dall'India come da altre, tante parti del mondo (le badanti dell'Est, i barconi dall'Africa), e della necessità che alla parola discriminazione si sostituisca quella inclusiva e complessa di diversità, nella consapevolezza che Kumari inizia a coltivare giorno dopo giorno che "non è necessario avere lo stesso passato per condividere il futuro", che non si può restare indifferenti e nascondersi dietro al dito dell'"impotenza del singolo".

Votata all'insubordinazione, Kumari imparerà a tagliare via da sé la parte marcia, ad accettare che quel Paese multiforme è la sua casa, la sua madrepatria, il midollo delle sue ossa, l'archivio del suo cuore.

"Ed è stato allora che la vagabonda si è messa a cantare e un formicolio mi ha solleticato i chakra"  

Maria Lovito

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