La pratica dell'aver cura di Luigina Mortari (Bruno Mondadori Edizioni)

10.02.2021

Il testo della docente di Epistemologia Luigina Mortari ha il grande pregio di rimettere al centro della sua indagine il concetto di cura intesa come accudimento, preoccupazione per l'altro, assunzione di un compito di tutela che corrisponde alla consapevolezza della vulnerabilità della specie, della dipendenza reciproca e della reciprocità asimmetrica. 


Pubblicato nel 2006, il testo presenta una serie di riflessioni particolarmente adatte ai nostri tempi di pandemia in cui il paradigma della fragilità è stato gioco forza evocato e rimesso al centro del dibattito anche pubblico. La pandemia ha spazzato via alcuni miti del post moderno tra i quali la illimitata espansione del Sé, l'individualismo monadico, l'autosufficienza autarchica, la fiducia in una produttività infinita. I grandi temi rimossi sono riapparsi con il loro carico benefico e necessario di ridefinizione dei confini e dei limiti. Lo sviluppo verticale e rettilineo è stato costretto a piegarsi alla diffusione del contagio, alla malattia, alla debolezza , alla morte. 

Il tema della cura si è riaffermato con vigore perché il distanziamento sociale, la reclusione hanno indotto a riconsiderare il valore della relazionalità come vocazione ontologica umana: l'essere umano, aristotelicamente animale politico, è in realtà un animale relazionale. In questa situazione la riflessione di Luigina Mortari, elaborata in tempi non sospetti, risulta particolarmente audace ed acuta. 

L'autrice ribadendo la necessità delle cure parentali indispensabili per la sopravvivenza, sviluppa un ragionamento articolato che attraversa il pensiero del Novecento illustrando le radici della svalutazione della cura che hanno la loro origine in un pensiero antinomico che polarizza la lettura della realtà in coppie antinomiche ragione/emozione, mente/corpo, materia/spirito, in cui i due termini sono in un rapporto etico differenziato: uno dei due incarna il principio positivo elevato, eletto, l'altro, invece, l'aspetto deteriore e peggiorativo. Ciò è particolarmente evidente nel dualismo mente/ corpo in cui il corpo, come materia, è elemento svalutato associato al femminile. 

Alla donna viene riconosciuto un primato sul corpo e sulle sue necessità, e tutte le responsabilità pratiche della cura, in inglese care, mentre all'uomo compete la cura intesa come cure, cioè riflessione terapeutica

Ne deriva un quadro che conduce ad uno squilibrio di genere che ha ricadute etiche: la prassi infermieristica di accudimento diventa una sottoattività dotata di scarso riconoscimento sociale spesso riservata alla manodopera femminile, scaricando sulla donna il peso del prendersi cura come destino biologico e quindi innato e connaturato. 

L'autrice, invece sottolinea la situazionalità sociale che ha stereotipato il lavoro di cura come attività ideale per la femmina, incatenando il femminile all'oblatività assoluta, alla dedizione totale e definitiva. Occorre, perciò una risignificazione simbolica che restituisca alla cura la accezione dialetticamente più ricca come atteggiamento alla base di ogni relazione soprattutto educativa volto ad offrire all'altro strumenti e sostegno per la propria autorealizzazione. 

In questo senso per assumersi tale responsabilità occorre avere nutrito se stessi ed aver raggiunto una maturità affettiva che sa conoscere il limite della propria donatività perché non si trasformi in un autoannullamento.


Antonella Fucecchi  

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