Le zelanti lettere dell'Arciprete, Francesco Montemurro (Edigrafema edizioni)

" Il processo inquisitorio ha costantemente ammesso l'uso processuale dell'anonimo ed ha, anzi, incoraggiate le delazioni anonime nella fallace illusione di facilitare la scoperta dei reati e dei colpevoli, mentre apriva, il più spesso delle volte, la via all'errore giudiziario attraverso denunzie false e calunniose. (...) Pur nella oscurità dei tempi, qualche voce onesta si era levata a protestare contro il credito processuale accordato agli anonimi. FARINACIO ammoniva " processus per viam secreti denunciatoris improbatus est a jure" (Enciclopedia del Diritto, voce Anonimi, Giuffrè editore).
Solo dopo la rivoluzione francese e dopo molte, altre e numerose riforme, il processo accusatorio farà proprio il precetto di igiene processuale che vieterà l'ingresso nel processo degli scritti anonimi.
Ma, intanto, nella realtà come nella fantasia letteraria, l'arrivo di una lettera anonima aprirà la strada a processi pericolosi e a errori giudiziari fatali.
Ricorre a piene mani alla delazione anonima don Vincenzo Latorre, arciprete di una Bernalda colta nell'anno 1810 - i Francesi murattiani al Governo dei Comuni e i briganti lucani nei boschi - che, avvalendosi del suo denaro (tanto), della sua astuzia (personalità avida e incline al mendacio e, dulcis in fundo, destinatario di ben 81 Puntature) e della sua posizione sociale, costruirà un castello di menzogne e artifizi che non pochi guai procureranno a naturali e notabili della città.


Scaltro, ben lontano nei fatti, nei pensieri e nelle parole dalla vocazione sacerdotale, il personaggio di don Vincenzo, tuttavia, affascina e diverte, pur restando forte il disvalore nei confronti del suo agire illecito e peccaminoso.
Un affarista impegnato a ingrossare le ricchezze sue e della sua famiglia, affiancato da un fratello medico un po' tonto che gli fa da spalla, come nelle migliori gags comiche cinematografiche di Totò e Peppino.
E, intanto, in un intenso scambio di lettere, anonime e non, si dipana il racconto di una Basilicata ancora una volta sottomessa e divisa tra amore per l'appartenenza alla terra e lealtà nei confronti del potere costituito, dilaniata dalle scorribande dei briganti.
Arresti "in prevenzione", forca e decapitazione per i condannati, i cittadini comuni e ignoranti da una parte e i ricchi istruiti dall'altra a farla da padroni incontrastati, con il supporto di un clero corrotto e arrivista.
Questo racconta Francesco Montemurro nella sua ultima fatica edita da Edigrafema, Le zelanti lettere dell'Arciprete, un libro dal quale, con una incredibile maestria, lo scrittore quasi scompare per far posto allo scambio epistolare, forse il personaggio principale del romanzo, che da solo è in grado di costruire e raccontare la storia intera di due incredibili processi, uno a don Carlo Battistella e l'altro a Francesco Delsanto, nati entrambi sotto impulso di denunzia anonima ma dagli esiti profondamente differenti.

Montemurro conosce il Diritto, "studia le carte" - come si usa dire nell'ambiente - quello che racconta è vero, pur con qualche concessione alla fantasia per evidenti ragioni letterarie.
Appassiona l'attualità delle situazioni trattate, resa ancora più vivida da una penna vivace e divertente, capace di colorare i personaggi - tipi fissi - e renderli al lettore nella loro squisita singolarità e nei loro difetti che diventano segni distintivi, mordaci e a tratti esasperati (Carlo Battistella, "veramente un cittadino zelante e rispettoso del nostro governo", Teresa, "donna molto colta e determinata", e così via).
Anche questa volta Montemurro ci consegna un lavoro davvero ben fatto, sfila i lacci a faldoni di processi oramai parte della storia archiviata della Basilicata, ma sconosciuta ai più e questa funzione divulgativa rende ancora più prezioso il suo studio, le sue letture e il suo scrivere, chiuso in un Archivio di Stato che chissà quanti altri preziosi tesori contiene.
Maria Lovito