Mio figlio Marco, Mauro Valentini e Marina Conte, Armando editore

04.07.2020

Quinto libro per il giornalista e scrittore Mauro Valentini che torna a pubblicare con Armando editore in una nuova collana Dentro le Storie (di cui sarà anche curatore editoriale) e con una veste grafica completamente rinnovata rispetto ai suoi precedenti lavori.

In Mio figlio Marco, il giornalista presta la sua penna ai genitori di Marco Vannini, tragicamente scomparso una sera di cinque anni fa nella villetta della sua fidanzata a Ladispoli.

Una vicenda giudiziaria breve ma particolarmente toccante, tornata con prepotenza alla ribalta in occasione della lettura della sentenza della Corte di appello che ha proclamato una decisa riduzione della condanna inflitta in primo grado a Antonio Ciontoli e ai membri della sua famiglia e la minaccia, resa pubblicamente in un'aula gremita di parenti e amici del ragazzo, ma anche di giornalisti della carta stampata e delle televisioni nazionali, rivolta flemmaticamente dal Presidente del Tribunale alla madre, che urlava giustizia per il figlio, di deferirla "a Perugia" (così significando che ex officio l'avrebbe denunciata per oltraggio alla Corte).

Il racconto si sviluppa lungo due grandi blocchi narrativi: il primo, una raccolta di memorie ed emozioni familiari, riporta la voce della madre di Marco, la quale racconta l'ordinaria serenità della loro famiglia e l'affetto smisurato che circondava il figlio, in contrasto con la terribile solitudine in cui è stato lasciato morire; il secondo appartiene tutto proprio al giornalista aduso com'è a esaminare e leggere carte processuali per fornire resoconti oggettivi, ma anche per tentare di trovare nuovi, altri, inediti spunti di riflessione.

Completano il testo alcune testimonianze di chi a Marco ha voluto bene e le foto dei suoi momenti più belli.

Dunque una prima parte con l'obiettivo dichiarato di restituire al pubblico l'idea di un ragazzo vivo e vitale, pronto alle sfide del futuro, pieno di entusiasmanti progetti in contrasto all'immagine, a cui lo si inchioda, della vittima di un fatto intriso di misteri e di non detti, che ne hanno decretato una morte precoce.

Una seconda parte che illumina le zone d'ombra delle indagini e del processo, le falle di chi doveva porre sotto sequestro quella villetta e non lo ha fatto, il ruolo assunto da certi attori nella vicenda, gli aspetti psicologici involti nella storia di una famiglia, i Ciontoli, i quali, nella rappresentazione pubblica, appaiono essere un clan avvinto sui propri corto-circuiti mentali (modi di fare ordinari o conseguenze di stress post traumatico?).

Noto il fatto, agli inizi di questo anno, con una poderosa sentenza in larga parte argomentativa, la Corte di cassazione ha deciso che il processo è da rifare e la causa torna sub iudice proprio mentre il libro esce nelle librerie.

Senza rabbia, ma non in punta di piedi, accogliendo la tesi della Corte, lo scrittore offre elementi di riflessione utili a circostanziare alcuni momenti topici di quanto occorso in quella villetta ai quali non si è dato (o non si è deciso) di dare l'importanza che merita(va)no.

Resta di fatto l'amarezza nel considerare che i soccorsi, adeguatamente e tempestivamente prestati dai Ciontoli, avrebbero salvato Marco, ma così non è stato.

Resta lo stupore  nel pensare che tutti i presenti al fatto avevano adeguate capacità e competenze (anche infermieristiche) tali da comprendere che Marco stava male, e male davvero, e che il resoconto reale dell'accaduto e le condizioni del ferito avrebbero permesso a quella ambulanza di arrivare prima, con medico a bordo, equipaggiata secondo protocollo da una allerta per ferita da arma da fuoco.

Così non è stato!

E allora come si spiega questo "revirement", termine impropriamente usato ma efficace, della Corte di appello rispetto alla condanna del primo grado (comunque già ridotta nelle aspettative del PM)?

Dolo eventuale che diventa colpa cosciente, questa la risposta alla domanda.

Invece, gli Ermellini ribaltano il piano dialogico e rispediscono il processo ai giudici di appello (ovviamente in nuova composizione) con un severo principio di diritto a cui uniformarsi nella rivalutazione complessiva delle emergenze processuali.

Con il massimo rispetto a quanti rendono doveroso servizio pubblico all'informazione, un po' meno ai giusperiti da divano o da tastiera, cerco di capire quale sia il percorso logico argomentativo che una Corte segua nel definire un processo, e un processo come questo che secondo le risultanze fornite da Valentini, parrebbe anche "di facile soluzione", al limite dello "scontato".

Cerco di capire se i giudici, come si dice in altri contesti espressivi, possano aver preso un granchio.

Così nella mia personale ricerca mi imbatto in due articoli molto utili al tema trattato da Valentini e ne trascrivo integralmente alcuni passaggi.

"(...) quando il giudice ha deciso e la sua decisione non è più contestabile, la sentenza inizia a vivere la sua prima vita, come atto formale e tipico della funzione giurisdizionale, capace di produrre tutti gli effetti che l'ordinamento ne fa derivare.

La sentenza è un atto che "dice" la verità perché questo è il valore che le assegna l'ordinamento.

Una verità giunta a conclusione di una duplice operazione interpretativa: le tesi proposte dalle parti diventano fatti processuali solo se il giudice gli attribuisce credibilità e quindi effettività, i fatti processuali diventano reati solo se il giudice ne afferma la coerenza con una fattispecie incriminatrice.

Ma questa è solo la prima vita.

Poi ci sono tutte le altre che la sentenza vive ogni volta che qualcuno la legge, ne fa occasione di riflessione, se ne serve come riferimento per elaborazioni concettuali.

Avviene così che l'atto interpretativo primario diventa a sua volta oggetto di interpretazione.

Viene scrutato e vivisezionato.

Si fa attenzione alla decisione che contiene, alla spiegazione che ne dà chi l'ha presa.

Si allarga lo sguardo a orizzonti più ampi, cercando similitudini e differenze in altre decisioni.

Si richiamano le norme che il decisore ha valorizzato o scartato e le altre che avrebbe potuto o dovuto prendere in considerazione e si sviluppano così ulteriori piani di riflessione.

La sentenza torna in vita, ma sempre e soltanto come oggetto da osservare "in vitro", come un reperto da scansionare al microscopio per scoprire i segreti che cela.

Un fatto è però indiscutibile.

Le sentenze non sono atti dialogici, non ammettono dibattito.

Interessa invece comprendere se le manifestazioni proprie della specifica umanità del decisore prendano o no posto tra i criteri interpretativi e valutativi dai quali in ultima analisi dipende l'epilogo del giudizio"[1]

"E, tuttavia, non è infrequente che il giudice incorra in quelle che studiosi del linguaggio (non solo giuridico), filosofi e psicologi chiamano "trappole mentali", illusioni cognitive (bias) suscettibili di influenzare, distorcendolo, il processo decisionale dei giudici, indipendenti dal livello di istruzione e dalla durata dell'esperienza professionale.

Sono illusioni che allontanano dalle strategie prescritte dalle teorie formali del ragionamento corretto (logica, calcolo delle probabilità e teoria delle decisioni razionali), ne violano le regole e a volte fanno sbagliare(anche) i giudici!

I giudici devono prendere decisioni in condizioni di grande incertezza, sulla base di informazioni parziali e talvolta contraddittorie e spesso in assenza dei dati statistici rilevanti. Quindi dovremmo aspettarci che tutte le euristiche che interessano e alterano il ragionamento probabilistico ("rappresentatività", "disponibilità", "incorniciamento", ecc.) siano particolarmente rilevanti. D'altra parte, i giudici hanno un vantaggio rispetto ad altre figure che prendono decisioni in condizioni simili, come i medici o i piloti d'aereo: almeno in teoria, possono dedicare alla decisione il tempo necessario, senza eccessive pressioni tipiche delle situazioni di emergenza".[2]

Quindi, ho bisogno di pensare che tra il primo e il secondo grado di giudizio, il giudice sia potuto incorrere in una di queste trappole mentali. Così argomentando, scarto altre ipotesi più suggestive e artificiose, alcune pure tacitamente avanzate, e mi affido fiduciosa alla Corte che si avvia ad inaugurare il nuovo processo...perché, in mancanza di una decisione più aderente al reale svolgimento dei fatti, dovrò finire per credere che Marco si sia ferito da solo e da solo si sia lasciato morire...con un colpo d'aria o con la punta di un pettine...


Maria Lovito 


[1] Vincenzo Giglio, Il Giudice e il suo linguaggio, www.filodiritto.it

[2] Susanna Arcieri e Gustavo Cevolani, Le trappole mentali del giudice, intervista a Gustavo Cevolani, https://dirittopenaleuomo.org 



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