Un Libro, un Film
Lolita, dal romanzo agli adattamenti cinematografici di Stanley Kubrick (1962) e Adrian Lyne
di Roberta Lamonica
Lolita: romanzo controverso
Lolita, il controverso romanzo di Vladimir Nabokov, non ha bisogno di grandi presentazioni: esso è considerato tra i più grandi romanzi del ventesimo secolo e rappresenta un punto fermo nella letteratura occidentale moderna sin dalla sua uscita nel 1955. Anche chi non conosce il romanzo, avrà di certo sentito la parola 'Lolita', spesso usata per definire una ragazzina seduttiva e maliziosa. Lolita ha di certo lasciato il segno nella cultura popolare, soprattutto grazie ai due adattamenti cinematografici di Stanley Kubrick e Adrian Lyne, rispettivamente del 1962 e del 1997. Questi due film hanno contribuito alla formazione di gran parte dell'immaginario comune legato a Lolita.
Il romanzo di Nabokov è scritto nella forma di memoir da una prigione dalla quale lo studioso di letteratura francese Humbert Humbert racconta la storia di come egli, attraverso una serie di eventi più o meno bizzarri, arriva ad amare, possedere e infine perdere la giovane americana Dolores Haze... Dolly, Lo, Lolita. Il romanzo è interamente raccontato dal punto di vista di Humbert e la narrazione è caratterizzata da una forma di introspezione 'colorita' e un intricato gioco di parole, interiezioni francesi ed elaborate allusioni letterarie.
Lolita entrò subito nella cultura popolare come simbolo immediatamente riconoscibile di una mescolanza di 'innocenza infantile e sessualità adulta' (Vickers), allontanandosi così sensibilmente dal materiale da cui aveva avuto origine. L'immagine che cementò l'identità di Lolita come tentatrice adolescente nell'opinione pubblica fu il poster promozionale stilizzato del primo adattamento cinematografico a firma di Stanley Kubrick che mostra la giovane attrice esordiente Sue Lyon riflessa nello specchietto retrovisore di un'auto, che guarda da sotto degli occhiali da sole a forma di cuore, mentre succhia un lecca-lecca rosso. Casualmente nessuno di questi oggetti appare mai nel film o nel libro. Ciononostante, questa immagine è perdurata nel tempo in tutti i media ed è stata utilizzata per i più disparati scopi, anche meramente commerciali. In questa trasformazione di una vittima di abuso in complice accondiscendente o addirittura astuta manipolatrice sessuale non si può non scorgere una intrinseca tragedia.
Eppure molti lettori e spettatori continuano a guardare Dolores Haze attraverso lo sguardo e dal punto di vista di Humbert. Nel romanzo non c'è evidenza tangibile che Dolores sia seduttiva o provocante o ancora particolarmente diversa da qualsiasi altra ragazzina della sua età. Proprio come Humbert priva Dolores della sua infanzia, persona, nome, facendola diventare una figura di fantasia e arte, la coscienza pubblica ha spesso adottato e ancor più spesso alimentato questa immagine di ragazzina conturbante ed eccitante che però, in definitiva, piange prima di addormentarsi ogni notte. In questa immagine di Lolita sovraccaricata eroticamente nella cultura popolare, si può ravvisare una forte ambivalenza. Il tema centrale dietro il romanzo è quindi la pedofilia, e nonostante questa perversione sessuale non possa essere nemmeno vagamente associata ad alcuna forma di humor, togliere la parte ironica nel romanzo significa danneggiarne l'anima stessa, dato che l'ironia è spesso volta proprio a ridicolizzare, annientandole, le pretese fantasie romantiche di Humbert. E' lo humor mediante il quale viene descritto che ci mostra Humbert per l'uomo crudele e manipolativo che è. E sempre lo humor funziona da invito a trattare temi complessi, come la inconsistenza degli ideali romantici, l'imposizione dell'arte sulla realtà e i comuni schemi di psicanalisi. Humbert, in effetti, riduce Lolita a un oggetto estetico su cui vuole avere il completo controllo. Le dà addirittura un nuovo nome, Lolita, al posto di Dolores che, a suo dire, evoca sensazioni di buio e tristezza. Il tema del controllo estetico è esplorato anche attraverso il motivo della recitazione e del teatro. Quilty è un drammaturgo e Dolores mostra un'inclinazione per la recitazione e prende parte a una recita scolastica. E il concetto di recitazione rimanda all'idea stessa di inganno, una degli assi portanti del romanzo. Charlotte che pianifica di mandare sua figlia in un collegio o Dolores che inizia una relazione con Quilty e trama di fuggire con lui. Questo venire a patti con l'impossibilità di avere un controllo assoluto sulla libertà dei personaggi (o attori, nel film) è ciò che porta Humbert a uccidere Charlotte prima e Quilty poi. Addirittura l'atto di confessare i propri crimini può essere visto come un estremo tentativo di controllo estetico sulla storia.
Il primo adattamento per il cinema
Perché mai hanno dovuto fare un film da Lolita?", era la tagline di promozione del film di Kubrick. Questa era la sfida di un film e di un cineasta alle convenzioni sociali. Nonostante l'evidente ironia dietro la domanda, di certo essa aveva fondamenti di validità e trovava giustificazione nel fatto che l'espressione cinematografica era ancora legata al codice di Hays e ad associazioni cattoliche ultra conservatrici. Nabokov fu coinvolto nella scrittura del film e, dopo aver a lungo titubato, produsse una sceneggiatura di 400 pagine con diverse aggiunte rispetto al romanzo, a seguito di "una piccola illuminazione notturna di origine diabolica", come ebbe a dichiarare. Ovviamente tutto fu condensato e molto di quanto prodotto da Nabokov venne rivisto o modificato da Kubrick. Nabokov ebbe un atteggiamento altalenante nei confronti del film ma la sua considerazione della maestria e dell'arte di Kubrick non vacillò mai.
Lolita può essere classificato come una black comedy e, in effetti, il film ha tutte le caratteristiche del genere. Il tono sconfina spesso nel farsesco, i personaggi hanno alcuni tratti da cartone animato e la recitazione è spesso teatrale ed esuberante. James Mason nei panni di Humbert, Peter Sellers come Quilty e Shelley Winters nel ruolo Charlotte Haze, oltre che l'esordiente Sue Lyon come Lolita, diedero vita a un cast particolarmente affiatato e in linea con il progetto cinematografico di Kubrick. Eppure, sebbene all'uscita Lolita avesse ricevuto anche diversi apprezzamenti, molti critici lo liquidarono come un prodotto dall'umorismo bizzarro e non fedele all'originale, data la mancanza di contenuto erotico esplicito e la innegabile manipolazione della trama.
In effetti Kubrick condensò la storia significativamente. Non vengono presentate l'infanzia e il romance giovanile che fa da sfondo alle motivazioni di Humbert; i viaggi in auto di Humbert e Dolores attraverso gli Stati Uniti vengono solo incidentalmente esposti; Lolita, nel romanzo, è il vezzeggiativo con cui Humbert - e solo lui - chiama Dolores: nel film di Kubrick tutti la chiamano così. Inoltre, Kubrick espande notevolmente il ruolo di Quilty, che è costantemente presente in tutta la storia, spesso in incognito. Ma il più significativo cambio operato da Kubrick fu di tipo strutturale, facendo iniziare il film in medias res e alterando la cronologia della storia, o, meglio ancora, facendola iniziare dalla fine, quando viene commesso uno dei due delitti del romanzo. Questo perché, secondo Kubrick, dopo l'inizio della relazione tra Humbert e Lolita, la storia perdeva di interesse e di suspence. Introducendo il delitto e la curiosità sulle motivazioni dello stesso, le dinamiche narrative sarebbero state più interessanti e tese.
Humbert e il tema del controllo
Nel film di Kubrick il personaggio di Humbert è esternalizzato, diviene personaggio come tutti gli altri e, così facendo, perde il controllo sulla narrazione della storia. Ci sono degli indicatori del fatto che comunque Humbert tenga in mano le redini del racconto, tramite, per esempio, l'uso delvoice over; ma, in realtà, questo controllo non è mai completo. Lolita viene presentata come cinica e arguta e rifiuta tutti i tentativi di romantico corteggiamento di Humbert. In un certo modo, questo aspetto condiziona la percezione dello spettatore di lei come vittima: non sembra mai impotente o incapace di agire nel film, nonostante la situazione agghiacciante nella quale si viene a trovare. Oltre a ciò, Kubrick lo inquadra sempre in modo che egli sia quasi 'scoperto' nel suo continuo inganno, con la cinepresa a fungere da ulteriore mezzo di controllo sulla storia. Molto di ciò che è concesso allo spettatore non è concesso a Humbert, come l'identità di Quilty, ad esempio. Questo suo essere tenuto all'oscuro su ciò che accade intorno a lui, fa sì che lo spettatore provi quasi simpatia per Humbert, ma al tempo stesso, lo fa percepire come goffamente ridicolo.
Il tono scuro e umoristico e il tema della lotta per il controllo è evidente fin dalla prima scena nel confronto tra Humbert e Quilty. La partita a ping pong (romanping - romanpong!) non esiste nel romanzo in questi termini eppure rende perfettamente al contempo il disimpegno e il tentativo di giocare con la vita di Quilty e la fatica a mantenere il focus sul suo progetto e il giocare con la morte di Humbert. Proprio come nel romanzo, Quilty rifiuta di contribuire a far redimere Humbert. Nel quadro raffigurante una giovane donna dietro il quale Quilty si nasconde, dei colpi di pistola ricordano metaforicamente che Humbert ha distrutto la vita di Dolores Haze, riducendola a oggetto artistico, immagine congelata per sempre nel tempo. Così, la prima scena, seppur leggermente differente per posizionamento e dinamica dal romanzo, mostra l'incapacità di Humbert a costruire una scena di redenzione per se stesso e il rifiuto di Quilty a collaborare, cosa che mantiene il tono ironico originale del romanzo. Stabilisce, inoltre, il tono farsesco del film fornendo un indizio interpretativo per lo spettatore. L'elemento umoristico nella scena è preponderante ma gli spari nel ritratto ricordano il pathos della storia, in particolare la sofferenza di Lolita.
L'elemento erotico
Si è detto che l'elemento erotico è quasi del tutto assente nel film e questo fu forse l'unico rimpianto per Kubrick, per il risultato finale. L'unica rappresentazione evidente delle pulsioni di Humbert è quando egli guarda un ritratto di Lolita mentre bacia Charlotte, scena che, fra l'altro, suscitò molte polemiche. L'elemento erotico, anche nelle sue connotazioni più morbose, viene sempre solo suggerito attraverso una continua attenzione sulle mani e sul loro muoversi, cercarsi e intrecciarsi; ma soprattutto attraverso una continua fame da parte dei protagonisti, bulimia di sentimenti e attenzioni. A livello di testo narrativo è poi evidenziato da parole, frasi a doppio senso e nomi parlanti, praticamente un gioco. Un gioco che distrugge l'innocenza di una ragazzina e la sua reputazione nella Storia.
Così le metafore visive e le dissolvenze in nero come indicatori di attività sessuale in corso sono relativamente fedeli al romanzo, una specie di pugno in pieno volto al pubblico e alle sue inclinazioni scopofile, e un modo efficace di aggirare la censura.
L'esplorazione di questi aspetti nel film, mostra una grande comprensione delle componenti centrali del romanzo, e così facendo, Kubrick resta fedele al lavoro di Nabokov in un modo che va ben oltre i suoi aspetti più superficiali. Molto dello humor presente in Lolita è allusivo e molto è presente sotto forma di parodia e satira del concetto di romanticismo, del tema del Doppelgänger e di quello della psicanalisi.
Il romanzo di Nabokov fa la parodia della tradizione classica ed espone una intricata analisi satirica sulla nozione di arte romantica con Edgar Allan Poe come centro focale della stessa. Il film comprensibilmente non reitera l'intera rete di allusioni romantiche presenti nel romanzo. La parodia del tema del doppio prende una forma differente nel film di Kubrick, ma arriva a una stessa conclusione. L'intrusione e il focus su Quilty enfatizza l'incertezza su di chi sia la storia in realtà, chi sia davvero l'ombra, offuscando la chiara dicotomia solitamente presentata nelle classiche storie sul 'doppio'.
Il fatto che Quilty sia interpretato con tale divertente stravaganza da Peter Sellers rende difficile dare alla dicotomia di cui Humbert si sente parte una reale credibilità. Questo si lega anche a una visione parodistica della psicanalisi. La rete di riferimenti sessuali che permea il film può essere interpretata come una parodia della preoccupazione per il sesso ( e nel film anche per il cibo) che è caratteristica di una certa psicanalisi, a tratti messa in discussione in modo quasi caricaturale.
Riferimenti, allusioni e musica
Le allusioni letterarie presenti nel romanzo di Nabokov vengono sostituite da Kubrick nel suo film da una propria rete di riferimenti intertestuali, non letterari ma cinematografici. Esempi ne sono la scena drammatica de La maschera di Frankenstein (1957), in cui il mostro si straccia le bende e mostra il suo volto orribile, chiaro simbolo della doppia natura di Humbert e del pericolo che le due donne corrono facendolo entrare nella loro vita. Ancora, all'Hotel dei Cacciatori Incantati c'è una scena tra Humbert e una anziana signora delle pulizie che sembra essere un omaggio a una scena simile inCharlot rientra tardi, di Charlie Chaplin. Nel seguito del film, Humbert e Lolita lasciano Beardsley con la scusa di una impegno di Humbert a Hollywood e Hollywood è una presenza ricorrente nel film.
Importantissimo il ruolo della musica, in Lolita. La musica funziona come motivo conduttore: esalta e sottolinea ironia e commedia nella narrazione della storia. Gli elementi musicali più importanti sono ovviamente il "Love theme" e "Ya ya". Humbert detesta il tipo di musica che ascolta e ama Dolores. Egli commenta. "Sento ancora le voci nasali di quegli invisibili che la corteggiavano, gente con nomi come Sammy, Joe ed Eddy e Tony e Peggy e Guy e Patty e Rex, e successi sentimentali, tutti uguali al mio orecchio, come le sue caramelle al mio palato". Nel film di Kubrick, Lolita è associata a una canzonetta inconsistente in stile anni '60, le cui parole non significano nulla, solo "ya ya." Questa canzone appare sia diegeticamente che extra diegeticamente come un indizio sonoro per Lolita. La vuota ripetizione della melodia sembra essere funzionale a far capire cosa sia per Humbert tutto ciò che Lolita ama e che, in definitiva, la rappresenta e la definisce. E non è un caso che stia suonando alla radio la prima volta che Humbert la incontra.
Il "Love theme" - Un pezzo leggero, classico e romantico di Bob Harris - si sente in diverse scene, soprattutto all'inizio, quando Lolita parte per il campo estivo e alla fine quando rifiuta di seguire il consiglio di Humbert di lasciare il marito per "vivere con me, morire con me, fare tutto con me". Questa melodia romantica è utilizzata sia in modo ironico che per trasmettere un senso di pathos nel film. Il suo uso in scene in cui sono protagonisti Humbert e Lolita, improbabile coppia, danno alla musica un effetto dissonante e umoristico, dal momento che la si vedrebbe più adatta a scene drammatiche tra due innamorati. Si sente suonare anche quando Humbert legge la dichiarazione d'amore di Charlotte, mentre lui ride in modo sadico e sguaiato, creando ulteriore dissonanza tra suono e immagine. Andrew Sarris in una recensione del film di Adrian Lyne del 1997, caratterizzò in modo negativo la musica nel film di Kubrick, e anche altri critici cinematografici sono rimasti interdetti di fronte alle scelte musicali in Lolita. A noi sembra, invece, un tentativo deliberato di sottolineare l'ironia del racconto utilizzando un medium che sia adeguato alla narrativa. La musica nei film di Kubrick aggiunge stratificazione di significato per i personaggi e funziona come un marcatore di ironia, mentre le immagini accentuano l'assurdità di ciò che sta avvenendo man mano che si sviluppa la storia. Questi elementi servono per stabilire il tono del film e servono a mettere in evidenza la giocosità che è così cruciale nel romanzo.
I film di Kubrick sono sempre stilizzati per ciò che concerne l'immagine. Esempi di immagini portatrici di humor includono la scena in cui Humbert, Lolita e Charlotte stanno guardando La maschera di Frankensteinin cui sia Lolita che Charlotte afferrano terrorizzate la mano di Humbert, solo che Humbert casualmente lascia andare la mano di Charlotte per grattarsi il naso per poi mettere il suo palmo su quella di Lolita; e la scena del 'cha-cha', in cui Charlotte cerca di sedurre un visibilmente a disagio Humbert con una goffa combinazione di champagne e un cha-cha (che sembra essere la controparte dello ya ya di Lolita). E' opinabile se queste scenette facciano davvero sorridere ma di certo sono coerenti con il resto del film e sottolineano l'assurdità della storia a cui stiamo assistendo.
Il secondo adattamento per il cinema
Adrian Lyne nel 1997 diresse il secondo adattamento cinematografico di Lolita. Forte di successi come Proposta indecente, Flashdance, Attrazione fatale e 9 settimane e 1/2,Lyne ha trattato il materiale erotico presente nel romanzo di Nabokov in modo coerente con la sua idea di cinema come laboratorio in cui investigare le pulsioni più segrete dell'essere umano. Il suo film, con un ambiguo Jeremy Irons nel ruolo di Humbert, è estremamente fedele alla trama del romanzo di Nabokov. L'apertura ad effetto con il celebre "Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi. Mio peccato, anima mia...", contribuisce all'idea di Humbert come peccatore che chiede redenzione per il suo 'peccato', convogliando le simpatie del pubblico verso di lui e quasi invitandolo a comprenderlo. Il figlio di Nabokov mostrò apprezzamento per la versione di Lyne, in cui la componente erotica è consistente sostrato del film.
Eppure, pur nella fedeltà all'originale letterario e con il contributo sempre fondamentale del Maestro Ennio Morricone per la musica, il film di Lyne risulta piatto e didascalico e sembra non cogliere lo spirito del romanzo di Nabokov, la sua ironia, la rete di allusioni e riferimenti che, pur in una resa non perfetta, non si può negare alla Lolita del grande Stanley Kubrick, film di culto di David Lynch, ed ennesima dimostrazione del suo essere genio indiscusso della Settima Arte.
Autobiografia di uno spettatore e Nuovo Cinema Paradiso
https://removies.com/2020/05730/nuovo-cinema-paradiso-1988-di-giuseppe-tornatore/
"Ci sono stati anni in cui il cinema è stato per me il mondo".
Italo Calvino, nel suo saggio Autobiografia di uno spettatore (1974), ha parlato proprio di 'mondo' in riferimento alla sala cinematografica e al potere dello schermo di trasportare lo spettatore in un mondo parallelo fatto di luci, suoni e assolutamente dotato di vita autonoma. Per milioni di giovani, soprattutto dopo l'orrore delle due guerre mondiali, il cinema nella memoria si identifica con la vita; esso è un'esperienza totalizzante, una vita parallela e per molti anni, l'unica vera vita desiderabile.
Giuseppe Tornatore omaggia il Cinema, quella 'vita parallela' in quello che per molti è il punto più alto della sua filmografia: Nuovo Cinema Paradiso, film del 1988 prodotto da Franco Cristaldi e vincitore di un premio Oscar come Miglior Film Straniero, dopo una distribuzione travagliata e sfortunata.
Tornatore ha più volte ribadito che avrebbe voluto realizzare Nuovo Cinema Paradiso in una fase più matura della sua vita professionale. E invece Cristaldi se ne innamorò a tal punto da volerlo produrre subito dopo averne letto la sceneggiatura. Fu una polemica giornalistica tra Tornatore e il direttore del Festival di Berlino - che aveva fatto apprezzamenti assai poco lusinghieri sulla salute del cinema italiano - ad attirare sul film le attenzioni dei selezionatori di Cannes. A Cannes fu un successo e in quella stessa sede i giovanissimi proprietari della Miramax, i fratelli Weinstein, comprarono i diritti del film per gli Stati Uniti, preparandogli il terreno per il massimo riconoscimento. Nel contesto di un Cinema italiano che versava in una crisi profonda, dove la sala era in sofferenza e a tenere alti gli incassi erano essenzialmente commedie ridanciane e un po' sboccate, Nuovo Cinema Paradiso, questa ode alla memoria e lettera d'amore al Cinema, non aveva incassato neanche quanto serviva per coprire le spese di produzione. Fino a quel momento. Fino a quando non è entrato nella storia del Cinema.
Nonostante abbia smentito in diverse interviste il carattere esclusivamente autobiografico del film, Nuovo Cinema Paradiso trasuda la presenza e la passione cinefila di Tornatore. Il regista siciliano è presente ovunque: nei ricordi d'infanzia; in quei cinema di Bagheria che diventavano sempre meno con il passare degli anni; nella sua esperienza giovanile come proiezionista e nell'amore per il Cinema inteso anche come atto di venerazione e generosità nei confronti dell'opera cinematografica in sé. Questi i pilastri del suo film 'ombelicale', come ha sempre amato definirlo, le fondamenta su cui è costruita questa storia di formazione e recupero della memoria e delle radici: quasi un'epopea simbolica e allusiva con una carica di umanità incredibile.
Salvatore Di Vita (Jacques Perrin), uomo di successo e dal fascino elegante e raffinato, viene informato della morte di un certo Alfredo. Mentre tenta di metabolizzare la sensazione che la notizia gli ha evidentemente provocato, un lungo flashback porta lo spettatore indietro nel tempo, nella vita di un Salvatore Di Vita bambino, che allora si chiamava solo Totò (Salvatore Cascio) e, in tre ipotetici 'tempi', si scopre il legame che ha indissolubilmente unito la storia di quel bambino a quella di Alfredo.
Tornatore costruisce un microcosmo pulsante intorno alla piazza di Giancaldo - paese immaginario della Sicilia - e al suo occhio magico, il Cinema Paradiso. Ad abitare questo mondo, una molteplice e variegata collezione di tipi umani. C'è il matto del paese che reclama la piazza come propria e che rappresenta un po' lo spirito del tempo, quel distacco dalle contingenze che permette di resistere alle bizze e alle trasformazioni di una società scossa fin dalle fondamenta da due guerre e pronta a ripartire tra tutte le incertezze e le difficoltà del caso. Il matto resiste ai cambiamenti molto meglio del Cinema Paradiso, che da 'sala parrocchiale' si trasforma in cinema 'moderno' con tanto di insegne al neon colorate prima, e in arena all'aperto, direttamente affacciata sul mare, poi.
Quel cinema svilito con una programmazione a luci rosse, squallida come la società dei consumi che ha bruciato, anche fisicamente, i sogni di una comunità, (nella sua ultima apparizione, il matto avrà le buste della spesa fatta al supermercato nelle mani, segno di abdicazione al suo principio di resistenza) viene fatto saltare in aria come la villa nel deserto in Zabriskie Point, ma riesce ad essere eternato grazie al ricordo e all'amore dei protagonisti. C'è il guappo, che gestisce il 'mercato del lavoro' e determina piccole e grandi povertà; c'è la maestra severa e intransigente che insegna a suon di ceffoni; c'è la madre sola, vestita di nero, nume tutelare e volto provato dall'assenza, portatrice di sapori buoni e profumi antichi. E poi c'è Alfredo (un Philippe Noiret davvero in ruolo), il proiezionista del cinema, che dalla sua cabina dietro la bocca di un leone di marmo capace anche di prender vita (per chi vuol vedere), dona la magia di avventure, emozioni, vicende e baci. Anzi no, i baci no, perché il parroco (Leopoldo Trieste) supervisiona le pellicole in anteprima, censurando ciò che potrebbe offendere il 'comune senso del pudore'.
Totò cresce per strada - monello fastidioso dall'immaginazione fervida e dalla curiosità senza limiti - e cresce all'interno della cabina di proiezione del Cinema Paradiso, luogo fantastico e 'forza magnetica' in cui nasce la sua passione per la settima arte. Un 'Paese dei Balocchi cinefilo', zeppo di poster e altri oggetti memorabili. Il luogo della vita.
Nel buio della piccola sala fumosa, in quella spada di luce che diventa immagini, suoni e vita, si forma il carattere e si plasmano le emozioni di un'intera comunità. La sala è il luogo dove il popolo si specchia e mette in scena se stesso: donne che allattano, amori che nascono, la scoperta del sesso, i commenti, la pruderie, l'immedesimazione, uno scopo e uno svago per uomini fortemente legati a una terra meravigliosa che blocca i padri in un tempo cristallizzato e da cui i figli sanno di dover fuggire.
E un Totò adolescente (Marco Leonardi), già prostrato dalle pene d'amore per la bella Elena (Agnese Nano), costruirà il suo futuro lontano da Giancaldo, come Alfredo, padre putativo e maestro di vita, gli ha detto di fare. Ma il passato torna sempre a bussare alla porta e Salvatore ne recupererà tutto il valore e l'importanza proprio quando era convinto di esserselo lasciato definitivamente alle spalle.
Tornatore riesce nel compito non scontato di toccare le corde più profonde dell'emotività dello spettatore attraverso un racconto umile, in cui ci si affeziona ai personaggi e se ne segue con partecipazione l'evoluzione. Il Cinema e i suoi capolavori immortali sono i veri protagonisti ma anche tutti coloro che lo hanno amato, in quel fazzoletto di terra lambito dal mare. Oltre ad Alfredo e Totò è impossibile non affezionarsi a Spaccafico, 'imprenditore' del Nord (Napoli!), interpretato da Enzo Cannavale, che con i soldi di una vincita alla Sisal dona al Cinema Paradiso una nuova vita; o ad Ignazio (Leo Gullotta), fedele e fidato collaboratore di Alfredo. Quasi un mondo fiabesco, quello creato da Tornatore, fatto di guappi non troppo cattivi, di imprenditori che hanno a cuore il bene della comunità, di persone riconoscenti e grate.
Nella memoria restano le scene indimenticabili della magia della proiezione sul muro di una casa della piazza, omaggio alla natura del cinema come arte di intrattenimento popolare e soprattutto la scena dei baci tagliati. Quei pezzi di pellicola tagliati, che 'sfregiavano' i capolavori da cui erano eliminati, riprendono vita in un montaggio perfetto, senza sbavature, senza tagli. L'ultimo regalo di Alfredo a Salvatore, anzi a Totò, a quel bambino che rideva al suono della campanella del parroco censore, a quel bambino che rubava pezzetti di pellicola, a quel 'figlio' tanto amato da volersene distaccare.
Questa scena culto non sarebbe la stessa senza lo score di Ennio Morricone (anche se il Tema d'Amore è del fratello Andrea). Flauti che portano lo spettatore su un mare calmo prima che una brezza sostenuta lo faccia veleggiare verso orizzonti inesplorati. Il canto struggente ed evocativo di un mondo che non c'è più e del quale, in fondo, sentiamo nostalgia.
E il mare rimanda a quello che è, per chi scrive, il valore aggiunto di questo film, e cioè l'umiltà e il rispetto con cui Nuovo Cinema Paradiso omaggia il modello a cui si ispira dall'inizio alla fine: La terra trema (1948), capolavoro mai abbastanza ricordato di Luchino Visconti. Dagli interni umidi e scorticati, alle piccole prepotenze dei più forti, alle lampare che luccicano sul mare, Visconti è innegabilmente un modello per Tornatore. Di Visconti manca la potenza espressiva, la dolorosa condizione di miseria senza riscatto, la pessimistica visione del futuro e quel respiro epico cui forse Tornatore aspirava ma che si perde, a tratti, nella tendenza alla macchietta e nel bozzetto.
Eppure, Nuovo Cinema Paradiso è ormai a pieno titolo un 'classico' della cinematografia internazionale, universalmente acclamato come capolavoro, capace di commuovere fino alle lacrime ad ogni visione, portatore di quel senso corale di appartenenza a un'umanità condivisa che in questi tempi bui andrebbe come non mai riscoperta e difesa.
Roberta Lamonica
LA BALIA - novella di Luigi Pirandello
LA BALIA, film del 1999, liberamente ispirato alla novella omonima.
Regia: M. BELLOCCHIO
CAST: F. Bentivoglio, V. Bruni, M. Sansa
ROMA, primi anni del' 900.
L'avvocato Mori deve assumere una balia per il figlio appena nato in quanto la moglie, Ersilia, e' una puerpera senza latte.
La scelta cade su Annicchia, una giovane balia amica d'infanzia di Ersilia, che vive in Sicilia in condizioni d' indigenza: il marito e' in carcere e, anche lei, come Ersilia, ha partorito da poco.
Annicchia dapprima e' molto combattuta, ma ha bisogno di guadagnare. A malincuore va a Roma e da subito allatta il neonato dei signori Mori con tenerezza materna.
Ersilia, invece, si chiude sempre di più in se stessa: e' gelosa della balia, e' sempre scontrosa con tutti e mai affettuosa con il marito.
Un giorno, arriva a casa dei Mori il marito di Annicchia: il loro bambino e' morto.
La donna allora, disperata, resta come inebetita per alcuni giorni e perde anche il latte.
Ersilia, allora, decide di mandarla via nonostante Annicchia la implori.
Che ne sara' di lei ?
Spesso la casa dei Mori e' frequentata da un amico dell' Avvocato : e' un compagno di partito del Mori, un dongiovanni che ritiene che tutte le balie siano donne facili. Annicchia andrà da lui come serva e non solo...
Rispetto alla novella di PIRANDELLO, il regista MARCO BELLOCCHIO ha apportato importanti modifiche.
Nella novella, infatti, la balia e' una donna semplice e sprovveduta.
Alla fine della novella, poi, la tragedia: il figlio della balia muore e lei finirà per cedere alle avances dell'amico dell'avvocato Mori.
Ben diversa e' la balia del film: una donna forte, coraggiosa, desiderosa di apprendere per diventare una donna moderna.
Una donna, quindi, antitetica a Vittoria (Ersilia della novella), l' algida borghese spaventata dal ruolo di madre.
Nel film, Marco Bellocchio ha ben evidenziato che la sua paura e', in realtà', PAURA DELLA VITA.
Vittoria - Ersilia e' affetta dal MALE DI VIVERE di montaliana memoria che il marito, però, non riesce a cogliere.
Se molto bella è la scena in cui il dottor Mori (nel film e' uno psichiatra) scrive per conto dell'analfabeta Annetta la lettera al marito carcerato, altrettanto belle ed intense sono le scene in cui compare Vittoria - Ersilia: donna e madre fragilissima che, in seguito all'arrivo della balia, abdica completamente al suo ruolo di madre.
Un film intenso, quindi, dal quale si evince come Bellocchio sia attento ad indagare l'animo umano.
Vittoria Leone
Accolgo con immenso piacere il suggerimento della mia cara Vittoria Leone di aprire nel blog LeggoLibri una nuova pagina dedicata al rapporto tra Libri e Cinema.
Vittoria insegna da venti anni materie letterarie e latino al Liceo di Policoro e non nasconde le sue passioni legate da sempre al cinema e alla letteratura.
Con lei, andremo a spasso tra libri e film, ne coglieremo similitudini e differenze, capiremo le dinamiche che intercorrono tra un racconto/romanzo e una sceneggiatura, scopriremo come una stessa storia può essere raccontata in modi diversi... dalla penna alla macchina da presa.
Benvenuta Vittoria Leone!
In questi giorni di forzata clausura, il tempo non dovrebbe mancare a nessuno. Uno dei miei libri preferiti e': " CON GLI OCCHI CHIUSI", il romanzo di Federigo Tozzi pubblicato nel 1919.
L' opera dello scrittore senese segna una tappa importante nella narrativa del primo Novecento in quanto, come quella di Svevo e Pirandello, segna il passaggio dalle certezze del Positivismo alle angosce esistenziali del Decadentismo.
Agli inizi del
Novecento, l' irascibile Domenico Rosi e sua moglie Anna- donna sensibile e
sottomessa- gestiscono a Siena una trattoria ben avviata. I due coniugi hanno
un figlio, Pietro, ingenuo e sognatore, spesso in conflitto con il padre -
padrone.
Il contrasto si acuisce quando Pietro s' innamora di Ghisola, una giovanissima contadina che va a lavorare in un podere di proprietà della famiglia Rosi.
Vicino a lei, il giovane sente le prime emozioni sicché, dopo qualche anno, decide di sposarla. Ma Ghisola non e' la donna che Pietro immagina: si allontana, infatti, da lui e passa da un amore all' altro fino a diventare l'amante di un ricco vedovo che la mette incinta.
Un giorno, pero', Pietro viene a sapere dove si trova la sua amata: e' in una casa di prostituzione a Firenze. Qui giunto, egli cerca Ghisola : malgrado la crudele realtà, Pietro l'ama sempre "CON GLI OCCHI CHIUSI". Poi il giovane, vedendola vistosamente incinta, apre finalmente gli occhi alla realtà.
Da questo
romanzo, nel 1994 , la regista FRANCESCA ARCHIBUGI ha tratto il film :
" CON GLI OCCHI CHIUSI".
Intensa e' l'interpretazione di STEFANIA SANDRELLI nel ruolo di Anna, la madre dolce e sensibile del protagonista. Bravi, poi, sia MARCO MESSERI , nel ruolo del padre - padrone ottuso e violento, sia GABRIELE BOCCIARELLI nel ruolo di Pietro, "l'inetto" tozziano per eccellenza.
Ma se nel romanzo e' Pietro che sta " con gli occhi chiusi", nel film, la regista Archibugi ha dato maggiore risalto al personaggio di Ghisola, interpretata da DEBORA CAPRIOGLIO.
E' Ghisola, infatti, costretta dalla miseria a prostituirsi, che rimane " ad occhi chiusi" di fronte alle brutture del mondo.
VITTORIA LEONE